Con l’ordinanza n. 16582 del 23.05.2022, la Cassazione afferma che, qualora il dipendente sia soggetto, durante i suoi servizi in regime di reperibilità, a vincoli di un’intensità tale da incidere, in modo oggettivo e molto significativo, sulla sua facoltà di gestire liberamente il proprio tempo, si impone la qualificazione del periodo di reperibilità come orario di lavoro.
Il fatto affrontato
I lavoratori, dipendenti comunali, ricorrono giudizialmente al fine di ottenere il risarcimento del danno per le ore di reperibilità superiori alle dodici ore giornaliere, per il superamento delle sei giornate di reperibilità in un mese e per la mancata fruizione del riposo compensativo dopo i turni di reperibilità prestati nella giornata di riposo settimanale.
La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, ritenendo che la turnazione cui erano affidati i ricorrenti era irragionevole, per la gravosità della prestazione e perché in caso di chiamata effettiva poteva determinare il mancato rispetto del riposo giornaliero o il superamento dei limiti del lavoro straordinario.
L’ordinanza
La Cassazione rileva, preliminarmente, che il periodo di reperibilità può essere qualificato come orario di lavoro anche nel caso in cui manchi un obbligo del dipendente di permanere sul luogo di lavoro, se il complesso dei vincoli imposti al dipendente limita la sua facoltà di gestire liberamente il tempo di attesa e di dedicarsi ai propri interessi.
A tal fine, continua la sentenza, è necessario prendere in considerazione il termine di cui dispone il lavoratore, nel corso del periodo di reperibilità, per riprendere le proprie attività professionali a partire dal momento in cui il datore lo richieda, unitamente alla frequenza media degli interventi che il dipendente sarà effettivamente chiamato a garantire durante detto periodo.
Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, laddove il citato servizio di reperibilità cada nel giorno di riposo settimanale il datore, di propria iniziativa, è obbligato a concedere al lavoratore interessato il riposo compensativo.
Applicando tali principi al caso di specie, la Suprema Corte rigetta il ricorso del Comune, confermando la debenza del risarcimento riconosciuto ai lavoratori per la maggiore penosità delle prestazioni e per il danno alla vita di relazione.