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L’aumento dei profitti giustifica il licenziamento

A un anno esatto dalla pronuncia 25201 del 7 dicembre 2016, che tanta eco aveva ricevuto sulla stampa, non solo specialistica, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi su un aspetto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, in particolare, sulla possibilità che questo possa o meno essere integrato dall’esigenza dell’impresa di incrementare il profitto mediante la soppressione di una posizione lavorativa.

Per comprendere la portata della decisione è opportuno ricordare che, sull’argomento, la giurisprudenza di legittimità è stata spesso ondivaga, oscillando tra due tesi diametralmente opposte.

Un nutrito gruppo di pronunce, infatti, considera illegittimo il recesso datoriale motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto, ritenendo che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento (articolo 3 della legge 604/1966) possa anche consistere nella esigenza sopravvenuta di «un’apprezzabile riduzione dei costi di impresa» purché tale esigenza «sia imposta da una seria ragione di utile gestione dell’azienda e non di per sé per l’effetto dell’accrescimento del profitto (che da solo sarebbe un motivo personale del datore)» (Cassazione 4146/1991).

Ne discende, come specificato dalla stessa Corte di legittimità in numerose decisioni successive, la necessità che il licenziamento per ragioni oggettive trovi fondamento nell’esigenza di fare fronte «a sfavorevoli situazioni» e non possa quindi essere «meramente strumentale ad un incremento del profitto» (tra le tante, Cassazione 12514/2004; 21282/2006; 7006/2011; 19616/2011; 2874/2012; 24037/2013; 5173/2015; 13116/2015).

Ne discende altresì, sul piano processuale, che il presupposto fattuale della sfavorevole situazione economica in cui versa l’azienda, indipendentemente dalle ragioni addotte dall’imprenditore e dalla loro effettività, assurgerebbe a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento, che deve pertanto essere provato dal datore di lavoro e accertato dal giudice.

Di segno opposto è invece l’orientamento secondo cui le ragioni inerenti l’attività produttiva possono derivare anche «da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti». E ciò in quanto «opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’articolo 41 della Costituzione , per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il “naturale” interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività» (Cassazione 10672/2007 e 12094/2007).

Del resto, si legge nelle pronunce appartenenti a questo filone giurisprudenziale, il ritenere come indispensabile, «affinché si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo, che l’impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento di un dato dipendente», porterebbe a una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica poiché «in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l’impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato» (Cassazione 13516/2016 e 15082/2016).

Ebbene, è a questo secondo orientamento, più vicino alle esigenze dell’impresa, che la Corte di cassazione ha dato continuità con la pronuncia 29238 del 6 dicembre scorso, ove si statuisce (facendo proprio il decisum contenuto nella 25201/2016) che «ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta».

Ragion per cui la motivazione addotta, se fondata, potrà essere ricondotta anche esclusivamente alla volontà di incrementare i profitti aziendali.

Fonte 

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