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Congedo parentale, licenziabile il genitore che non sta con il figlio

Rischia il licenziamento il papà che dopo aver ottenuto un congedo parentale per stare con il figlio minore di otto anni si dedichi ad altro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 509 dell’11 gennaio 2018, respingendo il ricorso di un dipendente di una società automobilistica contro la sentenza della Corte di Appello di L’Aquila che ne aveva confermato il licenziamento perché, a seguito delle indagini disposte dalla azienda, era risultato che nei dieci giorni di congedo, presi nel marzo 2013, «per oltre metà del tempo non aveva svolto alcuna attività a favore del figlio».

Secondo il lavoratore, invece, nel Testo unico maternità e paternità (Dlgs 151/2001) «non v’è traccia della necessità che il congedo sia gestito garantendo al minore una presenza “prevalente”, ovvero caratterizzata da continuità ed esclusività», trattandosi, diversamente dai permessi per l’assistenza ai disabili ex lege n. 104/92, di un istituto mirante «al soddisfacimento dei bisogni affettivi e relazionali del figlio».

La Suprema corte per prima cosa ricorda che la norma prevede per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, il diritto dei genitori di astenersi dal lavoro per un periodo di sei mesi, con la previsione di una indennità calcolata in percentuale sullo stipendio. Il fatto che l’istituto sia qualificato come un diritto potestativo, prosegue, non significa però che esso possa essere esercitato a piacimento e senza controlli.

Infatti, «in presenza di un abuso del diritto», il datore di lavoro è «privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione dell’affidamento da lui riposto nel medesimo», oltre alla «indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza».

Ciò accade «allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia». «Ma analogo ragionamento – continua – può essere sviluppato anche nel caso sottoposto in cui il genitore trascuri la cura del figlio per dedicarsi a qualunque altra attività che non sia in diretta relazione con detta cura». Infatti, «ciò che conta non è tanto quel che il genitore fa nel tempo da dedicare al figlio quanto piuttosto quello che invece non fa nel tempo che avrebbe dovuto dedicare al minore».

Del resto la Corte costituzionale (nn. 371/2003; 385/2005) ha chiarito come la tutela della paternità «si risolva in misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell’armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia». «Tutte esigenze che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al bambino, sono impedite dallo svolgimento dell’attività lavorativa (quella rispetto alla quale si chiede il congedo) e impongono pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro». Sul punto la Cassazione (n. 16207/2008) aveva già chiarito che «una siffatta conversione delle ore di lavoro, se pure non deve essere intesa alla stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può però ammettere un’accudienza soltanto indiretta, per interposta persona, mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare».

In allegato la sentenza 

 Fonte

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